Niccolò Fabi

È sotto la Mole che il cantautore Niccolò Fabi ha trovato quella che lui definisce “una seconda famiglia”. E in parte se la porta nel tour del nuovo disco, “Una somma di piccole cose”, che farà tappa anche a Torino, il 27 maggio al Teatro Colosseo

Niccolò Fabi è calmo, pacato, attento. Ascolta ogni domanda, si prende qualche secondo per riflettere e, per ogni singola risposta che dà, misura maniacalmente quel che dice. Parla lentamente, si ferma spesso per una pausa, prima di costruire una frase che – alla fine – non è mai scontata. È come se, inconsapevolmente, volesse ribadire l'importanza delle parole, di tutte le parole. Lui che con le parole – i loro suoni, i loro significati – ci lavora. Il risultato potrebbe essere freddo, costruito, artefatto. E invece quello che dice ha sempre calore, ha sempre sentimento. Parte dal cuore, verrebbe da dire con una frase un po' scontata.Sarà per questo che, ascoltando in anteprima il suo ultimo lavoro, “Una somma di piccole cose”, c'è stato un preciso momento in cui mi sono commossa. È uscita il 22 aprile per Universal, questa raccolta di nove intense tracce, e lo porterà in tour per un bel po' (a Torino sarà al Teatro Colosseo il 27 maggio). È un disco vero, pieno, un disco che mostra il lato più naturale della sua voce, che si racconta attraverso testi ricchissimi di significato, un disco da cantautore, insomma. Facile da amare ma emotivamente impegnativo. Anche perché – è inutile cercare di non parlarne per semplice e pudico rispetto – è difficile scindere la carriera artistica di Niccolò Fabi dalle vicende personali drammatiche che gli hanno portato via tragicamente una figlia piccola. Né mai verrebbe in mente di citarle, quelle vicende così dolorose e personali, quando si parla di musica. Però è lo stesso Niccolò a rompere il silenzio, a condividere le sue ferite con il  pubblico, a nominare l'innominabile per non renderlo un macigno di non detto che, probabilmente, non gli consentirebbe di esprimersi con la stessa forza. E allora ci sono pezzi come “Facciamo finta” e frasi come “Facciamo finta che io torno a casa la sera / e tu ci sei ancora sul nostro divano blu / Facciamo finta che poi ci abbracciamo / e non ci lasciamo più” che, anche alla luce del vissuto di Niccolò, acquistano un potere enorme, e sanno commuoverti delicatamente.

Un disco molto intimo. Come si vince il pudore di mettersi a nudo davanti al pubblico? 

«Si fa dopo aver avuto la sensazione che il tuo modo di condividere alcuni dei luoghi più segreti e complicati della tua sensibilità sia stato importante per qualcun altro oltre che per te. Quando ho avuto la percezione che alcune zone di luce e di ombra della mia vita hanno dato una possibilità terapeutica ad altri, aiutandoli ad ammorbidirsi, mi sono convinto di stare facendo la cosa giusta.

A volte mi sono reso conto che le canzoni (non solo le parole ma anche la musica, le sensazioni, l'atmosfera), avevano un effetto distensivo non solo su di me. E allora ho capito che il mio lavoro artistico poteva avere questo scopo, e questo mi ha spinto a continuare a farlo».

A che risultato porta “Una somma di piccole cose”?

«Piccole non significa per forza modeste, non è necessariamente un diminutivo. Se parliamo di difficoltà personali, il fatto di suddividerle, frazionarle, è ciò che può aiutare a superarle, perché nel momento in cui sono ridotte fanno meno paura. È un modo per procedere, per avanzare in maniera più sicura quando invece può risultare pietrificante fronteggiare un grande ostacolo. Ma fare una somma di piccole cose può anche essere un modo per governarle con più attenzione, riconoscendo l'importanza di ogni piccolo elemento che compone il tutto, qualsiasi cosa sia questo tutto: un progetto, un'azienda, una squadra di calcio, un obiettivo».

Perché “Ha perso la città”, come recita uno dei singoli di questo album? Si può tornare indietro e salvare il salvabile? 

«È una domanda che ci facciamo tutti. Non sappiamo se siamo ancora in tempo, ma a me non piace essere catastrofista se questo significa entrare in un meccanismo di disillusione e di cinismo che porta al disimpegno. L'unica cosa che abbiamo a disposizione è fare qualcosa, non possiamo aspettare la fine del mondo fumandoci una sigaretta. Io sono un cantautore, uso il linguaggio e cerco di far sì che avvicini alla fiducia nei nostri simili. È proprio questo ciò che ha perso la città: si è perso il sogno di una grande comunità che possa dare attenzione nei confronti dell'altro, che invece oggi viene sempre vissuto come antagonista».

Lei ha definito questo lavoro “il disco che avrebbe sempre voluto essere in grado di fare.” In qualche modo quindi il suo disco più maturo, più completo. 

«No, anche se sembra di intravedere quello non è questo il significato di quella frase. In realtà volevo dire che non sempre un artista è all'altezza di quello che desidera fare, non solo artisticamente ma anche emotivamente. Spesso quando ascolti un disco dopo le registrazioni ha perso un po' di magia rispetto alla fase di pre produzione: io fino a ora non ero mai riuscito ad avere il coraggio di pubblicare le registrazioni iniziali, senza l'aggiunta di troppi orpelli e tecnicismi. Questa volta, invece, mi sono sentito abbastanza forte da farlo: in questo disco ci sono canzoni scritte e registrate in una casa di campagna in due mesi».

Parliamo dell'importanza delle parole nella sua vita: i suoi testi sono sempre ricchi, studiati, attenti. Ha realizzato colonne sonore per film tratti da romanzi di successo, come “Come Dio comanda” o “Pulce non c'è”. Che importanza ha la letteratura nella sua vita? Quali sono i suoi riferimenti letterari? 

«Le parole per me contano tanto, ma non soltanto come esercizio di stile. Le parole restituiscono aspetti della vita che comprendi solo quando li racconti, ed è una cosa potentissima. La letteratura è certamente uno dei principali serbatoi di parole ma non è l'unico, e le canzoni forse non hanno bisogno di una grammatica letteraria. Ho tanti riferimenti letterari, ma non sempre ho sentito quel patrimonio come serbatoio per le canzoni, che per me hanno invece bisogno della realtà e del suo linguaggio».

Un bilancio dell'esperienza con Gazzè e Silvestri. Si ripeterà in futuro?

« È stata un'esperienza meravigliosa, una cosa che ha fatto bene a tutti e tre, in modo diverso. Ci ha reso più forti più sicuri, coscienti della nostra identità. Ognuno a suo modo ha avuto sensazioni di crescita e ha trovato un ruolo dominante da ricoprire nel trio, e quel ruolo rappresentava una cifra stilistica precisa: Max rappresentava la parte più giocosa e surreale, io quella più intima e di intensità, Daniele quella di idee e di narrazione».

Lei sarà il primo maggio a Taranto. È una scelta politica?

«Far parte di un raduno musicale del genere non è una cosa vicinissima al mio linguaggio. Io mi sento generalmente più a mio agio a parlare alle singole persone piuttosto che alle folle. Però credo che l'appuntamento di Taranto sia un incrocio fra le due cose: ho amici che hanno partecipato e mi hanno raccontato di un'aria appassionata, non di un semplice “concertone”. E poi avevo un paio di canzoni come “Ho perso la città” o “Giovanni sulla terra”  che mi sembravano un buon modo per partecipare a un evento del genere».

Lei è spesso a Torino. Cosa le piace di questa città?

«Torino negli ultimi 5-10 anni è diventata la mia principale sponda, grazie a persone che me l'hanno fatta conoscere bene e amare. Se ci penso porterò in tour con me quasi tutti musicisti piemontesi o torinesi, e non è un caso: dei torinesi mi piace la precisione lavorativa, ma anche la partecipazione appassionata che si respira. A Torino c'è una grande creatività e c'è la voglia e la capacità di realizzarla. E poi ci sono quelle cose inspiegabili che in un posto ti fanno passeggiare e sentire a casa».

di Valentina Dirindin

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