Viola Sartoretto e la sua Terra Buona

Un film indipendente, uscito nelle sale grazie a un’imponente raccolta fondi. È La Terra Buona di Emanuele Caruso, che ha scelto come protagonista la giovane Viola Sartoretto

È un film ricco di tematiche, La Terra Buona, secondo lavoro del giovane regista langarolo Emanuele Caruso. C’è la malattia, la solitudine, gli affetti, la scelta di una vita lontano da tutto e da tutti. C’è la storia vera di Padre Sergio, monaco benedettino scomparso nel 2014 all’età di 84 anni, dopo aver passato oltre quarant’anni in un monastero isolato da lui stesso ristrutturato a Marmora, in alta Val Maira, nel cuneese. Qui Padre Sergio, nella sua vita un po’ ascetica, ha raccolto libri e volumi rarissimi, con cui ha costruito quella che oggi è la più alta biblioteca d’Europa: un patrimonio di oltre due milioni di euro di valore e di inestimabile ricchezza storico-culturale. In questo luogo ricco di spiritualità è ambientato La Terra Buona. È infatti da Padre Sergio (interpretato nel film da Giulio Brogi) che un giorno si presentano dei giovani alla ricerca di risposte, che ovviamente troveranno dopo un percorso personale che metterà a rischio per sempre la pace e la serenità di uno degli ultimi angoli di Paradiso rimasti in terra. Niente colossi della produzione dietro le spalle: La Terra Buonaè un film indipendente, realizzato grazie a un imponente progetto di crowdfunding che ha portato al record italiano assoluto di raccolta in azionariato popolare per un film, con 80mila euro di quote raccolte. Un progetto giovane, fresco, interessante, realizzato in spazi che rendono le riprese davvero magiche: tutto è ambientato al confine con la Svizzera, in Val Grande, nella zona wilderness più grande d’Europa (152 chilometri quadrati). Ambienti immensi senza traccia di intervento umano, che hanno permesso inquadrature mozzafiato e che hanno accolto per sei settimane tutta la troupe del film, in una sorta di ritiro lavorativo. Tra le montagne tanto silenzio, un po’ di inquietudine, e molto tempo per pensare e per concentrarsi sul film. Così racconta l’esperienza Viola Sartoretto, giovanissima protagonista del lungometraggio. Attrice in erba, nata a Torino e cresciuta professionalmente a Roma, Viola è stata immediatamente rapita dal fascino della sceneggiatura e delle sue ambientazioni, tanto da convincere il regista di essere la persona giusta per il film. Perché Caruso, al provino iniziale, proprio non la voleva. Eppure, si è dovuto ricredere:

Viola era perfetta per la parte. viola, ci parli un po’ di lei…

«Ho ventinove anni e da sempre studio per fare l’attrice. Ho iniziato con il liceo teatrale a Torino, dove ho conosciuto Adriana Innocenti, che mi ha fatto crescere professionalmente e che è stata fondamentale per la mia formazione. Poi mi sono trasferita a Roma, dove ho frequentato l’Accademia Europea di teatro e di cinema Euteca. Da lì ho avuto il mio primo ingaggio importante, con Pupi Avati nella sere “Un matrimonio”: è stato incredibile lavorare in un ambiente di professionisti così grandi. Poi, dopo una parte nella serie “Non uccidere” è arrivato finalmente il cinema, con il mio primo lungometraggio da protagonista: La Terra Buona».

Il passaggio da roma è obbligatorio per chi vuole fare il suo mestiere?

«Non so se sia obbligatorio, di certo è molto importante. Roma è un po’ la nostra Los Angeles: è molto grande ed è indubbiamente la nostra capitale del cinema, le migliori opportunità di formazione e di lavoro si trovano lì. Torino è la capitale del cinema d’essai: si trovano progetti più piccoli, indipendenti e magari molto interessanti. Si fa molto buon cinema, ma non è mai abbastanza».

Come è arrivata a La Terra Buona?

«È stato buffo, perché dopo il provino in Film Commission il regista non era per nulla convinto di me e me lo disse subito. Però sono stata insistente e ostinata, gli spiegai che ci tenevo molto a farlo, che il progetto mi aveva colpito e che ero curiosa di questa esperienza di riprese nella natura. Il mio entusiasmo lo colpì, e alla fine mi scelse. Probabilmente è stato importante per lui trovare qualcuno che si immergesse al cento per cento nel progetto a cui sta lavorando».

Che personaggio è gea, la protagonista del film?

«È un personaggio molto forte, nonostante i suoi cedimenti. È una ragazza che deve ritrovare e curare se stessa, psicologicamente e fisicamente. È malata di cancro ed è alla ricerca di cure alternative per affrontare la sua malattia. Quello a cui andrà incontro sarà però soprattutto un percorso di guarigione spirituale».

Come è stato girare in quei luoghi, immersi nella natura?

«Un’esperienza pazzesca. Non conoscevo la Val Grande, come tanti altri Piemontesi, e invece è un luogo magnifico: a volte mi sembrava di essere sul set del Signore degli Anelli. Intorno a noi, per sei settimane, non c’era neanche un bar o un giornalaio. È stato molto forte e intenso, avevamo tempo per annoiarci e la cosa mi inquietava un po’, ma poi mi sono lasciata cullare dalle montagne e ho approfittato di tutto quel silenzio per pensare e concentrarmi».

Vivrebbe in un posto così?

«Oggi no, ma un giorno chissà. Certo, quando ti trovi lì, ti lasci affascinare da tutta quella pace e serenità, perché in fondo tutti aspiriamo a una vita più tranquilla. Poi torni a casa, e ti riabitui immediatamente alla frenesia quotidiana».

Una delle cose per cui è noto il monaco benedettino Padre Sergio è quella di aver fatto nascere la più alta biblioteca d’europa. Lei legge? Qual è il suo libro preferito?

«Abbiamo avuto occasione di visitare la biblioteca di Padre Sergio, ed è un posto bellissimo, di grande energia. Un labirinto di libri che lui ha costruito da zero. Un posto magico per me, che sono una grande lettrice. Ultimamente ho letto “Il Lupo nella steppa” di Hermann Hesse, che è uno dei miei autori preferiti, e “La giocatrice di go” di Shan Sa: un libro bellissimo che mi venne consigliato da un piccolo libraio indipendente romano».

Il film è stato realizzato grazie a una grande campagna di crowdfounding: oltre 500 sottoscrittori hanno donato quote di 50 euro. È questo il futuro del cinema indipendente?

«Potrebbe esserlo sicuramente, anche se in Italia è ancora molto difficile: quello che è riuscito a fare Emanuele Caruso è straordinario».

Com’è essere un’artista in un’epoca difficile per l’arte?

«Molto faticoso, perché devi fare mille altre cose per poterti mantenere. Però forse è sempre stata così la vita dell’artista, e bisogna farci i conti. La vera questione è continuare a crederci: non soltanto noi che abbiamo scelto di fare questa strada, ma anche chi ci sta intorno. Mi piacerebbe che le persone iniziassero a vedere il mio come un lavoro vero».

Preferisce il teatro o il cinema?

«Non è una domanda a cui riesco a rispondere, per me sono due grandi amori e non potrei fare a meno di nessuno dei due: mi riempiono entrambi di gioia, sono completamente diversi ma completamente in connessione».

Dove vorrebbe arrivare?

«Riuscire a vivere totalmente del mio lavoro sarebbe bellissimo, magari continuando a scegliere progetti che mi piacciono e in cui credo, senza scendere a compromessi».


di Valentina Dirindin

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